Nel febbraio 1996 il poeta, attivista e pioniere del web John Perry Barlow, scrive la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio diventando così una figura chiave del movimento per la libertà digitale con una visione del cyberspazio che ha avuto un impatto considerevole sulla società.
Nato in una piccola città del Wyoming nel 1947, John Perry Barlow ha lottato negli anni ’90 per i diritti digitali e ha fondato con John Gilmore e Mitch Kapor la Electronic Fontier Foundation.
Tra le altre cose, ovvero i testi scritti per l’amico Bob Weir dei Greatful Dead, oggi è ricordato come un pioniere di Internet, come colui che ha lottato per la libertà di parola e per l’apertura del web quando Internet era ancora ai suoi arbori, a lui dobbiamo molto di ciò che oggi possiamo fare sul web.
Il testo da lui scritto nel 1996 è una colonna portante della storia di Internet: in questa dichiarazione è delineata un’idea della rete senza frontiere, non controllabile da governi o da altri attori.
Il suo scopo era appunto creare un mondo indipendente dove chiunque sarebbe potuto entrare, un mondo privo di privilegi o pregiudizi basati su razza, potere economico, forza militare o luogo di nascita. Stiamo parlando di quella che in quegli anni poteva sembrare un’utopia, ma che oggi è la base sulla quale accediamo a Internet in maniera libera e ugualitaria.
Chi era John Perry Barlow e cosa intendeva per cyberspazio libero

Barlow non ha mai voluto essere definito da una singola etichetta. Era un cowboy del Wyoming che scriveva canzoni psichedeliche per i Grateful Dead, ma anche un intellettuale affascinato dal misticismo orientale, dalla filosofia della mente e dal potenziale della tecnologia come strumento spirituale di liberazione.
Fu poeta, allevatore, paroliere rock, attivista politico, filosofo digitale, ma anche un sognatore implacabile, capace di guardare Internet quando ancora non aveva una forma compiuta — e di vederci già un nuovo spazio di libertà radicale. Era un libertario culturale, uno che credeva che la responsabilità personale valesse più del controllo.
Barlow usava il termine “cyberspazio” non tanto in senso tecnico, ma come metafora antropologica e filosofica. Internet per lui era uno spazio creato esclusivamente da idee, relazioni e linguaggio: a differenza del mondo fisico, non era costruito da pietre, leggi, muri e corpi, ma era un luogo immateriale con identità liquida, regole fluide e senza sovranità.
“Nel cyberspazio non c’è posto per la proprietà privata, siamo nell’era del dotcomunismo.” Diceva John Perry Barlow che ha sempre continuato a difendere le sue visioni, prima tra tutte l’idea che il cyberspazio pur dipendendo dal mondo fisico fosse in realtà una cosa diversa, senza precedenti e in cui le istituzioni non possono avere alcuna giurisdizione.
Il documento di John Perry Barlow, inizia con un’apertura degna della Dichiarazione americana: “Government of the Industrial World, you weary giants of flash and steel, I come from Cyberspace…” Il tema cardine della dichiarazione riguarda l’autogoverno del cyberspazio, il nuovo habitat della mente che vive al di fuori della portata giurisdizionale dei governi.
Per cyberspazio libero, Barlow intendeva un luogo in cui non vi fosse in alcun modo sovranità territoriale, dove i governi non hanno alcuna autorità morale o legale su una realtà globale e autogestita.
Le uniche leggi possibili sono quelle derivate dal consenso, ovvero il potere è legittimo solo se derivante dal consenso dei governati, ovvero gli utenti del cyberspazio. In questo senso, autogoverno significa proprio che le norme sono di tipo comunitario, non statali: meglio un’etica collettiva piuttosto che leggi imposte dall’alto.
Non stiamo però parlando di un posto senza regole, piuttosto di un luogo senza imposizioni, dove l’ordine invece di arrivare dall’alto, deve arrivare dai partecipanti. La sua visione del cyberspazio anticipava temi oggi al centro del dibattito come la decentralizzazione, la governance distribuita, la privacy come diritto inviolabile e persino il concetto contemporaneo di bene comune digitale.
La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio
La Dichiarazione di Indipendenza da lui scritta è figlia di un contesto particolare: verso la metà degli anni ’90 infatti, Internet usciva dal solo ambito accademico e militare per diventare un fenomeno di massa. Al tempo si cominciavano a discutere leggi come il Communications Decency Art e il Telecommunications Act nel 1996, ed entrambi tentavano di imporre regole e censura sul web.
Pubblicata l8 febbraio, durante il World Economic Forum di Davos, la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio è scritta con un tono solenne e con l’ambizione tipica delle gradi dichiarazioni fondate.
Fin dal primo paragrafo, Barlow evoca i toni della Dichiarazione di Indipendenza americana, ricalcandone la forma: si rivolge direttamente ai “governi del mondo industriale” ai “vecchi giganti di carne e acciaio” e usa un linguaggio epico e visionario segnando una cesura netta tra l’epoca analogica dei governi e quella digitale della mente collettiva.
Nel testo non ci sono divisioni, paragrafi, è un continuo crescente di argomentazioni che si rincorrono e si rafforzano a vicenda. Inizialmente viene respinta l’autorità dei governi terrestri sul Cyberspazio per poi costruire un’idea di Internet come spazio immateriale abitato da menti libere e interconnesse, una coscienza collettiva.
Le due realtà, quella terrestre e quella del cyberspazio, finiranno per convivere attraverso regole etiche condivise e non leggi imposte. Con un tono di voce militante, la dichiarazione non è solo un lista di principi, ma una invocazione alla libertà che parla di coscienze digitali e che si rivolge direttamente alle generazioni future cercando di tutelarle e di impostare un uso più consapevole del web.
Barlow è la voce del popolo della rete ma è anche un profeta che trascende l’attualità e punta dritto a una visione filosofica della libertà.
“Cyberspace does not lie within your borders.” Vuol dire che Internet è sovranazionale, uno spazio per definizione svincolato dalla territorialità. “We will create a civilization of the Mind in Cyberspace.” È una frase che indica Internet come uno spazio della mente, un ambiente in cui la libertà individuale, la creatività e l’autodeterminazione costituiscono le basi della convivenza.
Con queste brevi frasi, Barrow incide un solco indelebile e stabilisce le regole per l’uso del web. “Cyberspace consists of transactions, relationships, and thought itself.” Internet ha una struttura biologica che è fatta per evolvere, un organismo vivente, umano, destinato a cambiare in mano alle prossime generazioni ma i cui valori dovranno restare inviolati.
La dichiarazione è di per sé un manifesto morale di intenti etici e non giuridici, fondata su libertà individuale, cooperazione volontaria e autodisciplina, un proto-manifesto per una governance partecipativa della rete, molto prima che si parlasse di web3, DAO o decentralizzazione.
Quanto è attuale la sua visione oggi

A quasi trent’anni dalla sua pubblicazione, la Dichiarazione di Barlow ci appare come un atto di fede incondizionato nel potenziale emancipatorio della rete. Ma oggi, in un’epoca dominata da intelligenze artificiali, big data e capitalismo delle piattaforme, la sua visione libertaria incontra inevitabili limiti e contraddizioni.
Internet non è più soltanto lo “spazio delle menti libere” evocato nel 1996. È un ecosistema profondamente infrastrutturato, controllato, regolato da architetture invisibili di potere. La visione di John Perry Barlow è oggi ancora lontana e a tratti rasenta l’utopia. La rete di oggi non è un mondo più umano, creato dagli umani e autogestito.
Internet si trova nelle mani di pochi attori economici che accentrano l’infrastruttura reclamando autorità geopolitica anche nel web, una terra che doveva essere di tutti. La rete, da strumento di liberazione, è spesso utilizzata per influenzare, opprimere, censurare, sorvegliare, il tutto mosso da dinamiche di marketing.
La net neutrality è orami un sogno cancellato da grosse lobby e sempre più si parla della fine di Internet. La libertà che crediamo di avere sul web è fittizia, le informazioni sono pilotate e spesso finiamo per vivere in tante diverse “bolle”, soprattutto in ambienti come i social network, che si costruiscono in base alle nostre preferenze senza lasciarci vedere la realtà o espandere gli orizzonti.
Eppure l’idea di John Perry Barlow era solo tale: un’idea, un po’ fantascientifica e hippy, ma pur sempre qualcosa a cui puntare, un’utopia basata sulla volontà dell’umanità intera di essere libera, consapevole, autonoma. Era possibile, per Barlow, creare un ambiente “altro” che fosse più vero della verità, che fosse libero, aperto a tutti, accessibile e capace di autoregolarsi.
Tecnicamente avremmo dovuto puntare a quell’ideale e dovremmo ancora lottare affinché sia così. La sua non era una visione deterministica, non era un diktat, era un valore che spettava a noi realizzare, rendere possibile.
Autonomia digitale vs regolamentazione
Oggi l’autonomia dell’individuo deve fare i conti con alcune forme di controllo invisibili, soft ma pervasive, esercitate attraverso interfacce studiate a puntino, metriche, notifiche, AI predittive etc.
La promessa del cyberspazio autogovernato è messa a dura prova da meccanismi di sorveglianza diffusa, da sistemi di moderazione opachi e logiche estrattive in cui il comportamento umano è il prodotto, non più il soggetto attivo. É scomparsa la capacità dell’individuo di impersonare il cambiamento e quindi di evolvere.
Il sogno di Barlow era basato sull’idea rivoluzionaria dell’autoregolamentazione ma come possiamo oggi proteggere gli utenti da manipolazioni, disinformazione, odio online e marketing senza mettere in atto una sorveglianza digitale? Come proteggere la libertà digitale pur mantenendo una regolamentazione?
Forse Barlow non aveva previsto i pericoli del web, oppure semplicemente li aveva previsti ma aveva scelto di credere nel bene anziché nel male, si era concentrato sulla nostra abilità di umani di autogestione.
Autonomia digitale oggi più che mai non può significare senza regole perché è necessario far nascere nuove forme di governance condivise basate sulla trasparenza, sulla partecipazione.
Internet decentralizzato e Web3
Forse il concetto di cyberspazio libero non è mai morto, si è solo evoluto all’interno del web 3.0. Tecnologie come la blockchain, le DAO, ovvero le organizzazioni autonome decentralizzate, le reti peer-to-peer e i protocolli open-source stanno rimettendo il potere decisionale nelle mani degli utenti riducendo sempre di più l’ausilio degli intermediari.
La Dichiarazione di Barlow è la profezia che ha reso possibile il web 3.0 e la decentralizzazione: il principio della non territorialità è coerente con sistemi blockchain che non rispondono a una giurisdizione unica, ma a una rete globale di nodi. Il consenso e l’autoregolazione possono essere reinterpretati all’interno della logica di smart contract modificabili dalla comunità. In queste tecnologie l’eredità di Barlow è più viva che mai.
Creare uno spazio digitale realmente libero, giusto, inclusivo e condiviso è possibile ma è un’idea che deve passa attraverso una forma di cittadinanza digitale consapevole dove gli utenti tengono presente che la tecnologia è uno strumento di partecipazione, la comunità è un luogo di negoziazione e la trasparenza è alla base della fiducia.