La gig economy è da anni stata venduta come il futuro del lavoro, con alterne fortune: le promesse di flessibilità totale, di essere il capo di te stesso, di guadagnare quando vuoi, si sono scontrate con realtà molto diverse e più complessa. Dietro l’app colorata di Uber, Deliveroo o TaskRabbit si nasconde spesso un sistema che promette libertà ma consegna precarietà digitale.
E così, se è vero che nel 2025 milioni di persone lavorano attraverso piattaforme digitali, è anche vero che ci troviamo di fronte a un paradosso: mai come oggi abbiamo avuto così tanta “flessibilità” lavorativa, eppure mai come oggi il lavoro è stato così insicuro e privo di tutele. È davvero questa la direzione in cui vogliamo andare?
La domanda non è se la gig economy sia buona o cattiva, ma come possiamo renderla più equa. Perché il problema non è la tecnologia, sono i modelli di business che abbiamo costruito attorno ad essa. Proviamo a saperne di più!
Che cos’è davvero la gig economy oggi
Per prima cosa, definiamo la gig economy contemporanea come qualcosa di ben diverso da quella dei primi Uber o Airbnb: si è infatti espansa in settori impensabili, dal copywriting ai servizi legali, dalla consulenza IT alla cura degli anziani. Non parliamo più, dunque, solo di autisti o rider, ma di un sistema economico che coinvolge professionisti qualificati, creativi, consulenti.
Le piattaforme si sono sofisticate: algoritmi di machine learning che predicono la domanda, sistemi di rating complessi, gamification per spingere i lavoratori a essere più produttivi. È diventato un sistema di controllo invisibile, ma pervasivo.
Definizione e numeri attuali del lavoro su piattaforma
Ragioniamo poi sui numeri. Nel 2025, circa 150 milioni di europei hanno lavorato almeno una volta tramite piattaforme digitali. Di questi, 40 milioni lo fanno regolarmente come fonte principale di reddito. I settori più coinvolti sono trasporti (25%), delivery (20%), servizi domestici (18%), lavoro creativo (15%) e consulenza professionale (12%).
Ma cosa significa davvero “lavorare su piattaforma”? Le linee di applicazione sono numerose. Si può guidare per Uber, si può essere graphic designer che vendono loghi su Fiverr, si può fare il programmatore che prende progetti su Upwork, l’insegnante che fa lezioni online su Preply, e così via. Insomma, un universo frammentato dove ognuno è teoricamente “imprenditore di se stesso” ma praticamente dipendente da algoritmi che non controlla.
Il 70% di questi lavoratori dichiara di aver scelto la gig economy per flessibilità, ma il 60% ammette che lo ha fatto per necessità economica. Ecco, dunque, che la libertà promessa spesso si rivela una costrizione mascherata: sei libero di lavorare quando vuoi, ma se non lavori non guadagni. Nessuna malattia pagata, nessuna vacanza retribuita, nessuna pensione.
Tra sfruttamento algoritmico e assenza di tutele
A proposito di elementi critici, approfondiamo ora alcuni aspetti di valutazione contemporanea della Gig Economy, tra sfruttamento algoritmico e assenza di tutele.
Condizioni di lavoro e assenza di sicurezza sociale
Il rider che consegna il tuo cibo paga benzina, manutenzione della bici, assicurazione. Guadagna in media 8-12 euro l’ora, ma senza contributi, senza malattia, senza tutele. Se si fa male, non riceve alcun tipo di indennità. Se piove e non lavora, non guadagna. Se l’algoritmo lo penalizza, non ha un capo umano con cui parlare.
Si tratta di condizioni di lavoro evidentemente difficili, ma il problema non riguarda solo i lavori “fisici”. Un copywriter su piattaforma compete con colleghi di tutto il mondo in una gara al ribasso sui prezzi. Deve gestire clienti difficili senza un servizio HR che lo supporti, pagare le proprie tasse da freelancer, trovare clienti continuamente perché non ha sicurezza di reddito.
Si consideri, in tal proposito, che l’assenza di tutele non è un difetto del sistema, ma è una sua caratteristica tipica. Le piattaforme risparmiano miliardi classificando i lavoratori come “contractor indipendenti” invece che dipendenti. Zero costi sociali, massima flessibilità per loro, massimo rischio scaricato sui lavoratori.
Il ruolo degli algoritmi nelle assegnazioni e nei rating
Considerato che ne abbiamo appena fatto cenno, rileviamo come gli algoritmi siano coloro che decidono chi lavora e chi no, anche se nessuno sa come funzionano davvero. E così, se il rating scende perché un cliente ha avuto una brutta giornata, ciò si traduce in meno lavoro per te. E se l’algoritmo decide che nella tua zona c’è troppa offerta, i prezzi diventeranno più bassi.
Il sistema di controllo è poi più sofisticato di qualsiasi fabbrica tradizionale. Il capo non ti dice cosa fare, ma l’algoritmo ti spinge verso comportamenti specifici attraverso incentivi e penalizzazioni. Se vuoi guadagnare di più, devi accettare più ordini, in orari peggiori, con meno tempo per ogni consegna.
Il rating diventa pertanto una spada di Damocle permanente. Un 4.6 invece di 4.8 può significare la differenza tra vivere decentemente e non arrivare a fine mese. Eppure, il rating non misura la qualità del tuo lavoro, misura la soddisfazione del cliente influenzata da mille fattori che non controlli…
Regolamentazioni e diritti digitali
Dinanzi a questa discussa evoluzione, l’Europa ha iniziato a reagire. Nel 2024 sono state approvate alcune direttive che parlano anche di questi temi, cercando di obbligare le aziende a classificare correttamente i loro “collaboratori”.
I nuovi diritti del lavoratore digitale nel 2025
Nel 2025 stanno inoltre emergendo nuovi diritti specifici per l’era digitale. Uno di questi è il diritto alla trasparenza algoritmica: sapere perché ti è stato assegnato o negato un lavoro. Un altro è il diritto alla portabilità del rating, che ti permette di mantenere la reputazione in caso di cambio piattaforma e, ulteriormente, il diritto alla disconnessione: anche se sei “sempre disponibile”, devi poter spegnere l’app senza penalizzazioni.
Alcuni Paesi stanno inoltre sperimentando il “salario minimo per piattaforma”: un guadagno orario garantito che include tempo di attesa e costi operativi. Altri stanno creando fondi pensione universali per lavoratori non tradizionali.
Tuttavia, appare sempre più chiaro come la regolamentazione – da sola – non basti. Serve invece un cambio di paradigma: dal “lavoratore usa e getta” al “collaboratore valorizzato”. Alcune piattaforme lungimiranti stanno già sperimentando benefit, formazione, supporto sanitario. Non per altruismo, ma perché si sono accorte che lavoratori trattati meglio producono risultati migliori.
Alternative sostenibili alla gig economy
In conclusione della nostra guida, condividiamo insieme alcune alternative sostenibili alla gig economy, potenziali percorsi che potrebbero riporre al centro dell’attenzione il lavoratore, con le sue tutele.
Cooperative di piattaforma e sindacati digitali
Una di queste alternative è certamente rappresentata dalle cooperative di piattaforma, che ribaltano il modello: invece di essere di proprietà di venture capital, sono possedute dai lavoratori stessi. Stocksy per fotografi, Loonomics per servizi locali, CoopCycle per delivery. Stessi servizi, profitti condivisi equamente.
Il modello cooperativo non è un mero ritorno al passato, ma pone le basi per essere una delle più interessanti innovazioni sociali. Si utilizza infatti la tecnologia per creare valore, ma invece di concentrarlo in poche mani lo distribuisci tra chi il valore lo crea davvero. È capitalismo con una coscienza.
Anche i sindacati digitali stanno emergendo come nuova forma di organizzazione, non più basati sulla fabbrica ma sulla piattaforma. Lavoratori Uber di diverse città che si coordinano per contrattare condizioni migliori. Freelancer che si uniscono per avere potere negoziale con le piattaforme.
Esperimenti e modelli scalabili per un lavoro più equo
Diverse città nel mondo hanno lanciato dei modelli scalabili per favorire un lavoro più equo. In Spagna, ad esempio, Barcellona sta sperimentando una piattaforma pubblica per servizi cittadini, gestita dal comune ma operata da cooperative locali. Negli USA Austin ha creato una piattaforma di ride-sharing no-profit, con un piccolo esperimento “anti-Uber” che dimostra che le alternative sono possibili.
Insomma, modelli che dimostrano come la gig economy non sia intrinsecamente buona o cattiva. È piuttosto uno strumento potente, che può può liberare il potenziale umano o danneggiarlo con nuove soglie di sfruttamento: la differenza sta in come scegliamo di progettarla.